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"Qu'elles étaient ainsi blanches comme leurs cheveux" prima che ci camminassero sopra. Cristiano Sias |
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La Poesia Perfetta
(la poesia non ha bisogno di immagini, ma le immagini hanno bisogno di poesia)
Ore 23,15 di un giorno qualunque. L'Adsl è morta. Sono riuscito a configurare il mio cellulare e collegarmi a 230 kbps, mentre mangiavo una banana. Dicono che la sera le banane siano pesanti, eppure le mangio da sempre. Penso che anche la valutazione del "peso" sia relativa. Come l'umanità. Cosa è rimasto di assoluto? Me lo chiedo andando in cucina a prendere le sigarette. Guardo fuori, oltre la vetrata della veranda che dà sulla vallata. E' tutto buio. Mi sposto alla finestra dello studio che si affaccia sul tetto poco sotto di me, nessuna luce anche lì. Tutte le finestre delle case sono spente. Sembra un paese abbandonato, non è possibile che non ci sia nessuno. Vado in salone, sul balcone e dalla finestra della camera da letto è lo stesso. Neanche un cinguettìo, un gatto. Silenzio. Totale, assoluto? Alla tv qualcuno dice con tono da letterato: assolutamente sì, assolutamente no. Che stupidaggine... o è sì o è no. E' silenzio e basta, anche nel ronzio della ventola del mio pc, anche nel borbottio del mio stomaco, anche nel frastuono dei miei pensieri. Il freddo è silenzio? La tv che parla da sola è silenzio? L'infinito anche, è silenzio? Anche il freddo dentro può essere infinito, ma assoluto mai. Che c'entra l'assoluto a questo mondo? O è sì, o è no. Vedi delle luci? No, anzi sì. Vedo le lampadine della piazzetta della chiesa del tredicesimo secolo e laggiù, oltre le case a circa 500 metri, le insegne dell'autogrill che ha rubato la vallata e separato in due il paese. Un'altra lassù, sul costone, ma forse è una stella, o un riflesso dei miei occhiali. Sono stanco? No, anzi sì. Infinitamente stanco. Sembra deserta anche l'autostrada. Eppure solo ieri questi tetti brillavano per la nevicata. Si parlavano tra loro. Oggi sembrano dormire, aspettare... soltanto stamattina era diverso, era come nella poesia perfetta, la più bella che sia stata mai scritta:
Sempre caro mi fu quest'ermo colle
E questa siepe, che da tanta parte
Dell'ultimo orizzonte il guardo esclude.
Ma sedendo e mirando, interminati
Spazi di là da quella, e sovrumani
Silenzi, e profondissima quiete
Io nel pensier mi fingo; ove per poco
Il cor non si spaura. E come il vento
Odo stormir tra queste piante, io quello
Infinito silenzio a questa voce
Vo comparando: e mi sovvien l'eterno,
E le morte stagioni, e la presente
E viva, e il suon di lei. Così tra questa
Immensità s'annega il pensier mio:
E il naufragar m'è dolce in questo mare.
L'infinito - Giacomo Leopardi (1819)
(Chi non la conosce alzi la mano. Ecco lo sapevo, asino!)
(Se la poesia è immagine, le immagini sono poesia)
C'è sempre una siepe che esclude lo sguardo dell'ultimo orizzonte. Per favore, lasciatemela nella tasca interna della giacca, anche dopo...
No... non la siepe! Un po' d'attenzione perbacco.
Cavolo, devo staccare la connessione... assolutamente!
(La Poesia non ha bisogno di nulla, ma tutto ha bisogno di Poesia)
_________________ Cristiano Sias
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"Qu'elles étaient ainsi blanches comme leurs cheveux" prima che ci camminassero sopra. Cristiano Sias
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Quelli dalle labbra bianche
Traslocare è un po' come morire (e rinascere).
Ricordo il mio primo vero trasloco, nel 1977, a Torino dopo una breve pausa a Genova: uno zaino militare con una pentola e gli scarponi "carrarmato" appesi, due paia di jeans, il libro del mio vicino di monte Urpinu a Cagliari, "Quelli dalle labbra bianche" di Francesco Masala, nessun vero posto dove andare, un'università da finire e un "tesoro" di 500mila lire in tasca, con la voce di mio padre che risuonava nella testa "se te ne vai non avrai più nulla da me".
Mi ospitò un amico studente greco, oggi noto architetto di Atene, ma dopo un mese i suoi coinquilini mi scacciarono e trovai una camera in affitto in un luogo sperduto e gelido, dove venivano a trovarmi i miei "amici" di Genova per regalarmi una stufetta o una coperta, perché per lavarmi dovevo fare due rampe di scale e arrivare in un lurido cesso alla turca, condove c'era un rubinetto da scongelare con un fiammifero e un foglio del mio giornale "settimanale". A quel tempo mi divertiva cambiare casa, mi dicevo "quando troverò qualcosa di meglio ci andrò". Dopo sei mesi trovai un alloggio in coabitazione con un ex compagno d'armi e una padrona di casa con quattro figlie bellissime, un alloggio nella piazza antonelliana più rotonda d'Italia e ancora una coabitazione con due amiche, poi una monocamera dove poterci portare la più bella, e successivamente un posto di lavoro a Roma, in una multinazionale che mi affidò la gestione dell'intero centro e un ufficio in mogano con due linee telefoniche. Non l'ho mai saputo con precisione, ma credo ci avesse messo lo zampino l'ambasciatore americano; la mia famiglia allora era potente: generali, politici, cardinali, suore e prelati, il presidente della corte dei conti che veniva a cena da noi, zii giudici che perseguitavano l'anonima sequestri del tempo e tutta una schiera di parruccati insopportabili solenni predicatori e notabili. Anche lì cambiai casa due volte, per ritornare a Torino per amore, dopo un anno, lasciando una promettente carriera e una bellissima e ricca italoamericana. Quel trasloco lo feci con una Volvo limousine automatica prestatami dalla miliardaria e ritornai in un'altra casa in affitto, ricominciai un altro lavoro...
Da allora fu un turbinio di case affittate, comprate e rivendute, una moglie, una quasi moglie, due figli, decine di "fidanzate", schiere di amici, macchine e moto di lusso e decine di dipendenti turbolenti: Milano, ancora Torino, Cagnes sur mer, Nizza, Ventimiglia, ancora Genova, Rapallo...non ho mai fatto il conto esatto, ma credo senza esagerare di aver fatto più di 40 traslochi in 30 anni, fino a quello attuale.
Quasi un mese fa ho smontato il mio computer e ho faticato non poco stavolta a farlo rifunzionare. Nell'attesa disperata di un'adsl, ho recuperato con fatica una connessione vecchia di 5 anni che va così piano che solo per windows update mi ci sono voluti tre giorni e con le ultime energie rimaste cerco di riprendere in mano una situazione che sembra fare acqua da tutte le parti. Ci vorrà tempo, ma lentamente, ancora una volta, ci riproverò, anche se oggi mi sembra che lentamente non si possa più costruire nulla, che tutto vada sempre più veloce, troppo veloce. "Tu sei l'uomo de l'éternel reccommencement" mi diceva il mio amico siciliano di St Laurent du Var, aggiungendo "come si dice in italiano reccommencement?".
Non importa dove io mi trovi adesso, mi accorgo che dal 15 ottobre vivo come fuori dal mondo, senza quasi un contatto o una telefonata e mi sembra di aver fatto una doccia "purificatrice" lunga un mese dalla quale sono uscito uguale a quello che ero trent'anni fa. Insomma, quasi. Certo, le pentole e gli scarponi sono un po' di più e i libri tanti, i vestiti sicuramente troppi e se non ci fosse questo maledetto mal di schiena... Di sicuro mi sento molto più stanco, quasi terrorizzato davanti a oltre 500 mail da leggere (due ore per scaricarle con la linea che cadeva continuamente), a ore passate a sistemare un hard disk dispettoso e decrittare files "crackando" passwords "efs" per tentare di recuperare la poesia scritta l'altro giorno, che volevo mostrarvi, perduta, credo ormai, senza speranza (un incubo... gli "esperti" e i poeti mi capiranno ognuno per la sua parte...) e comincio a chiedermi cosa ci sia nella mia vita, o in me, che mi costringe a peregrinare senza sosta, senza un approdo dove fermarmi e riposare. Ogni volta mi dico "da qui non voglio più andare via" e ogni volta qualcosa o qualcuno mi fanno decidere diversamente. E ogni volta che riapro gli scatoloni sempre più numerosi salta fuori quel libro del centro di iniziative teatrali di Cagliari e rileggo le parole di quel romanzo alla "Spoon River" così colmo di poesia, scritto da colui che conobbi all'età di 15anni, quando mi avevano colpito quei nomi così colmi di significato, "Serafina Pestamuso", "Culobianco", "Cacaesuda", Trictrac" e i suoi filtri d'amore che allontanava le volpi dal pollaio con gli scongiuri delle dieci parole proibite...di quel semplice e buono poeta d'istinto e di immagini che considero oggi come uno dei miei primi maestri, un dialogo fra "sos laribiancos", che mangiavano troppa poca carne e avevano le labbra sempre sporche di farina, bianche appunto, come lui stesso mi aveva detto:
" Amico, fuori amico, amico no... di dieci parole nove te ne dirò... nove per i nove cori degli angeli, otto per gli otto diavoli cornuti, sette per i sette peccati mortali, sei per le sei candele, cinque per le cinque piaghe, quattro per i quattro vangeli, tre per i tre chiodi della croce, due per le tavole di Mosé, una per il sole e una per la luna..."
Fermandomi qui, immagino oggi che la decima parola non fosse quella dei dieci comandamenti, ma che sia sempre la "poesia", la parola proibita che le racchiude tutte, che "allontana le volpi dal pollaio", che possa salvare ... il mondo e in questa povera e pia illusione mi accorgo di vivere ancora. Bisogna pur credere in qualcosa.
In fondo non sono cambiato, ho sempre le labbra bianche anch'io.
_________________ Cristiano Sias
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"Qu'elles étaient ainsi blanches comme leurs cheveux" prima che ci camminassero sopra. Cristiano Sias
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Diario di mare
Cap.1 - Il sogno
Caro Amore lontano, ti scrivo parole che non leggerai. Le scrivo per le nuvole ed il vento. Le prenderanno e ne faranno delle stelle. Sotto queste stelle il mio mare rifletterà la loro luce e i suoi riflessi saranno i palpiti del mio cuore per te.
Ho lasciato anch'io il mio pianeta di smeraldo. Sono volato in alto, più in alto della nebbia. Il pianeta in cui mi trovo ha il colore dei miei sogni. Il mare è la mia unica dimora.
La terra in cui vivo non ha terra.
L'unica isola è artificiale. Qui sono arrivato e ripartito fra strisce luminose verso il cielo, linee di fuoco che lasciano nell'aria un'odore pungente e velenoso.
Solchi ruggenti che sovrastano le voci della folla e delle onde: i razzi per i rifornimenti e l'invio della farina di pesce, in questo pianeta immenso, interamente sommerso dall'acqua, che dà la vita a tutto l'universo.
Il mio lavoro consiste nell'esplorare le zone sconosciute.
Sì, mi è venuto in mente che questo fosse solo una squallida competizione fra compagnie di pesca, per condizionare l'assegnazione delle aree del pianeta.
Ma non m'importa.
Mi hanno dato un piccolo sommergibile monoposto e un permesso di pochi mesi. Poi potrai tornare a casa, hanno detto.
Non gli farò capire che resterei qui per sempre, che anche dopo morto voglio restare qui, dissolto amorosamente nelle correnti, sollevato con appassionato vigore da onde alte come montagne, fuso col sale e la spuma.
Dopo menzogne e inganni e prezzi pagati sono giunto nel pianeta mare. Sono giunto nel luogo dei miei sogni. Non accetterò mai di andarmene.
Mentre ti scrivo sento lontano il pulsare delle onde, i sussurri sapienti delle correnti che da milioni di anni non si fermano e le voci quasi indistinguibili dei pesci. E il brontolio di lontani vulcani soffocati nelle viscere del mare invincibile. E il cadavere quasi inesistente del plancton sul fondo invisibile.
Intorno a me si muovono forme immense, monumentali, esseri che cerco di ignorare in questo silenzio etereo, questo ondeggiare di brividi e sensazioni intorno a me. Questo eterno parlare del nulla con il tutto.
Questi sono i suoni che la mia anima ha sempre desiderato.
Non importa che prezzo hanno. Lo pagherò.
Mi sento come disteso sulla pelle di un Dio sconfinato, un Dio muto, irascibile, estraneo alle nostre nozioni di bene e necessità, ma non lo temo.
Anzi, nella mia povera vita, fatta di città sovraffollate, è la prima volta che mi sento davvero vivo...
E' la prima volta che...
Che succede? sento l'acqua che percuote le pareti dello scafo.
Un movimento improvviso, come uno spostamento violento di forze sconosciute che sibilano e scricchiolano intorno a me.
Ero così assorto nei miei pensieri che quasi non me ne accorgevo.
Improvvisamente, la vedo!
Amore è una visione impossibile! mi hanno detto che potevo avere delle allucinazioni, ma... così presto?
No, è lì. Reale.
Un'ombra enorme, maestosa, grande mille volte il mio battello! Può affondarmi solo passandomi sopra. Mangia navi e pesci giganteschi soltanto schiudendo le labbra.
Che magnifico pesce! Che stupendo esemplare, può essere Dio.
Accendo i motori, la inseguo.
Guardo meglio, è vera! è l'anima di questo mondo smisurato, viscerale, appassionato. La seguo, la proteggo, mi accorgo di amarla senza neanche sapere chi sia.
L'ho trovata finalmente, sarò il segreto custode, il suo eterno alleato!
Per mesi navigo immerso nella sua scia. Sei mia, sono tuo, siamo di tutti e di nessuno, siamo gli esseri del mondo, siamo il respiro di questo eterno girovagare.
Siamo l'essenza del pianeta mare.
Non mi lasciare, io non ti lascerò mai. Ti amo, quasi quanto amo questo mare. Perché tu sei la sua anima, sei la vita di queste acque. Fermati un momento, fermati per me!
Sono anni che ti cerco.
Fermati...
E quasi avesse sentito la mia voce soffocata, di colpo l'anima si arresta, terribile e affascinante. Ora sembra guardarmi, immobile, fissa verso di me.
Ma non è così.
Quell'occhio buio si accende, si apre, diventa un oblò e dentro compare un ometto calvo, bianco, repellente e viscido, con un secchio di spazzatura in mano. Lo svuota in mare, poi prende una specie di cannone a mitraglia e spara in acqua gridando:
- bestiacce maledette! Magari moriste tutte!
Bastardo!
Bastardo! E io che ti credevo l'anima di questo mondo, ti ammiravo, ti adoravo. Bastardo, sei solo un'altra finzione, un sommergibile enorme travestito da pesce per ingannarmi. Bastardo , ti ammazzerò. Ti ammazzerò!
Mi vede, scappa, è più veloce. Non devo avere fretta. E' meglio equipaggiato, è troppo grande per me. Lo seguirò e prima o poi...
Lo prenderò!
D'ora in avanti questa sarà la mia ragione di vita. Bastardo!
Lo ammazzerò, per avere mandato in frantumi il mio povero, meraviglioso sogno.
Cap. 2 - La tempesta
Onde immense circondano il pianeta, precipitando in fosse profonde per poi tornare a ergersi al di sopra delle terre sommerse, interminabili onde mostruose nelle maree governate dalle tante lune.
Onde che si infrangono in un vento senza altro profumo che quello del sale.
Tempesta nell'oceano.
Una tempesta che comincia con uno squilibrio da qualche parte del pianeta e si estende, ingigantisce come una demenza maligna, una furia cieca e senza volontà.
Come una reazione impazzita, disperata, contro un essere piccolo e debole che si mette in lui per svuotargli le viscere. Un essere chiamato uomo.
Sento che si è fermato. Non sopporta la tempesta.
Non ha imparato dai pesci.
I pesci stanno in profondità e se c'è tempesta non si combattono.
Anch'io sto in profondità. Certo se urto contro qualcosa muoio, come i pesci. Ma quando la tempesta finirà gli sarò addosso. Lo farò a pezzi.
A volte vengo trascinato contro il fondo. Sento gli artigli del corallo. Il sonar si spegne, il timone risponde appena.
Poi qualcosa, oggetto o animale mi blocca, forse per distruggermi, forse per salvarsi dalla furia del mare.
Finché - poiché sta esaurendo le forze o per qualche altro motivo - la tempesta si placa e un silenzio assordante si mescola con l'acqua.
In alto. In alto!
In superficie il mare è calmo e fa emergere fasci di alghe verdi e marroni e brandelli di meduse.
Rimarrei ore a contemplare queste meraviglie, ma lui si allontana e non posso perderlo.
Giorni e giorni di inseguimento, posso a malapena sentire le sue eliche. Ci sono troppi pesci, grandi banchi, disturbano la trasmissione radar, me lo faranno perdere.
Accidenti a loro!, potrei sparare un siluro per spaventarli. No, poveri animali, non hanno colpa.
E' lui! Lui è il colpevole di tutto, disgraziato, avrei dato la mia vita per vedere un pesce grande come quello ed era solo una finzione, un camuffamento per non farsi riconoscere.
Gli sono vicino.
Ho potuto ascoltarlo. Ogni giorno si ubriaca, ride e grida oscenità. Deve essere appena oltre l'orizzonte.
Se non riuscirò ad avvicinarmi di più lancerò un siluro, facendolo guidare dai suoi urli di ubriaco. Morirà della sua stessa volgarità.
Per raggiungerlo dovrò arrischiarmi a navigare in superficie. Meglio. Quaggiù c'è un immenso banco di pesci dai colori metallici e scintillanti. Mi disturbano. Maledetti pesci.
Oggi sono tre giorni che si muove in assoluto silenzio, senza ubriacarsi, senza emergere. Deve avermi sentito e non riesce a capire che cosa sono.
Quando lo scoprirà, sarà troppo tardi. Devo solo aspettare.
Eccolo, l'essere colossale, l'incarnazione dei miei sogni e le mie devozioni.
La nebbia sull'acqua è come un secondo mare. Cangiante, spinta verso l'alto dalle onde, in eterno movimento, quasi avesse paura di questa nave di metallo che si muove nel silenzio dell'alba.
Dentro io, l'uomo che ama questo mare, stringo i denti, dimentico di tutto ciò che non sia il desiderio di uccidere.
Ci sei! I siluri sono un fremito nella nebbia, un secondo di silenzio, di quiete perfetta. Poi un suono soffocato, come un risucchio. Un'esplosione. Terribile. Una immensa bolla di sangue e carne maciullata e ossa spezzate.
Non può essere. Ho preso un pesce. Enorme gigantesco ma un pesce. Lo osservo per un lungo istante mentre inclinato su un lato, un fianco squarciato, comincia ad affondare, irrimediabilmente morto.
Un istante in cui qualcosa si è mosso sul fondo della mia anima. Qualcosa come l'ombra di una devozione, l'eco di un sentimento, il fantasma di un uomo diverso da me.
Maledizione! Ora sa che lo inseguo, mi sfuggirà!
Oggi sono stato sul punto di ucciderlo. Mi sono messo in posizione, ho lanciato un siluro, ho colpito. Ed è risultato essere un pesce.
Maledette bestie! Sì, magari potessero morire tutte!
Cap. 3 - L'isola
Navigo al di sopra di un atollo corallino più esteso di qualunque continente della terra.
In altri tempi mi sarei fermato per esplorarlo e adesso l'ho sorpassato senza nemmeno uno sguardo.
Il sommergibile si fa strada fra banchi di calamari giganti, riflessi perlacei e macchie di spuma bianchissime, senza che io veda o senta nulla intorno a me.
Non lo lascerò scappare!
Lo inseguo, lancio un altro siluro.
- Ha lanciato un siluro, figlio di puttana, non li finisce mai! Spegnere i motori, spegnere il sistema di ventilazione, spegnere tutto ciò che fa rumore, eccolo... mi sfiora, se ne va, sta cadendo sul fondo... lasciami in pace, lasciami in pace!
Si dirige verso l'isola, per un po' non capisco cosa voglia fare, poi lo sento urlare con la voce acuta e stridula del pazzo:
- un modo c'è! So come liberarmi di te! Attenzione, controllo traffico dell'isola, sono in un sommergibile equipaggiato per il contrabbando di farina di pesce, voglio costituirmi!, voglio denunciare quelli che hanno progettato questo, voglio...
- ce l'ho fatta, ce l'ho fatta! Non potrà più uccidermi!
Si è costituito!
È sfuggito per un pelo anche al linciaggio della gente. Lo condanneranno. O forse i pescatori prima o poi lo linceranno. Non deve succedere! Io. Devo essere io ad ammazzarlo e per questo posso solo fare una cosa: andrò sull'isola.
Questo diario sarà completato solo quando ci annoterò la sua morte.
Che schifo. Non sopporto di stare sulla terra ferma.
Ma aspetterò. Quanto occorre. Non può tardare molto. Uscirà e io lo ammazzerò, non importa se devo stare qui ore al freddo o se dopo mi giustizieranno.
Deve essere oggi.
Oggi lo ammazzerò.
Una voce mi scuote, un viso volgare, le labbra troppo rosse, due occhi profondi e i seni prorompenti:
- Ehi! Non ti ho mai visto, non hai denaro? Posso accettare anche un assegno. Cos'è, un diario? Io dico sempre che un uomo si conosce solo da ciò che scrive per se stesso.
"... oggi mi sono immerso. Ho spento i motori e ho ascoltato. Ho sentito lontano il pulsare delle correnti, che da milioni di anni non si fermano e le voci quasi indistinguibili dei pesci. E il brontolio di lontani vulcani soffocati nelle viscere del mare invincibile. E il cadavere quasi inesistente del plancton sul fondo invisibile. Questi sono proprio i suoni che la mia anima ha sempre desiderato.
Non m'importa che prezzo hanno. Lo pagherò..."
" ... non gli farò capire che resterei qui per sempre, che anche dopo morto voglio restare qui, dissolto amorosamente nelle correnti, sollevato con appassionato vigore da onde alte come montagne, fuso col sale e la spuma. Dopo menzogne e inganni e prezzi pagati sono giunto nel pianeta mare. Sono giunto nel luogo dei miei sogni. Non accetterò mai d'andarmene..."
- Lascia perdere il denaro, ho sempre sognato uno come te. Andiamo in un posto tranquillo... è una vita che ti aspetto.
- No, ora no. Vattene.
- Se cambi idea, sarò giù al dormitorio. Ti basterà chiamarmi.
Un'altra femmina si avvicina, con un sorriso spietato.
- Finalmente qualcuno che sa scegliere! Vuoi provare con me? Cosa leggi, un diario? Ne tenevo uno anch'io, ma poi ho scoperto che ci scrivevo sempre le stesse cose, la vita di una puttana dell'isola non è molto varia sai? Vediamo... ho sempre detto che capisci se un libro è buono o no leggendone il finale. Forse con i diari è lo stesso...
Legge una pagina, e gli occhi diventano due palle di fuoco tremolante. E man mano che va avanti, i lineamenti del viso diventano di pietra.
- Sei... sei un povero animale. Un pazzo ossessionato dall'idea di uccidere! Sei un mostro!
E a un tratto il mare si agita tra i piloni coperti di alghe e di molluschi. Un suono dolce e lieve, come una voce quasi silenziosa che non parla alle orecchie, ma a ciò che sta dietro. Una voce che arriva dalle profondità dell'oceano.
Mentre sto lì seduto, a leggere e pensare, un altro bisbiglìo mi scuote.
- Tipo strano quello!
Due poliziotti passeggiano e commentano guardando sospettosi verso di me.
- Tipo strano quello...
- Perché?
- Non hai notato che legge al contrario? Dalla fine all'inizio.
...
Andare dalla fine all'inizio.
Retrocedere pagina dopo pagina, dolorosamente, riga dopo riga. Per disarmare la costruzione dell'odio, della rabbia, della pazzia.
Per ritrovare il seme del sentimento.
E alle spalle, come a spingermi, a guidarmi, l'oceano agita piccole onde profumate e ingioiellate di spuma.
Piccole promesse a un suo innamorato, che forse ritornerà.
_________________ Cristiano Sias
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"Qu'elles étaient ainsi blanches comme leurs cheveux" prima che ci camminassero sopra. Cristiano Sias
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Un gran bel bambino
La partenza - parte 1
Era davvero un giorno strano, quell'8 marzo 1999.
Il sole poteva sembrare il solito caldo e assonnato sole della maggior parte dei giorni della costa, ma pure lui aveva qualcosa di particolare e pareva emanare con i suoi raggi calma e sicurezza.
L'aria si era come assopita e non si sentiva il minimo alito di vento, il che da queste parti è veramente inusuale.
Anche la gente, e le cose intorno ad essa, si muovevano come in un cartone animato che scorreva al rallentatore. Tutto ciò che mi circondava era un insieme ovattato, come dopo un abbondante nevicata.
Le mie stesse sensazioni erano mute trasposizioni dei sentimenti o delle vibrazioni che muovevano uomini, animali e cose...
Vestii, come altre volte, Mattia con cura, ma anche rapidamente. Il tempo a disposizione era poco. Lo guardavo ed era come essere al centro di un'orchestra in cui nessun suonatore si trovava al posto giusto e suonava a ritmo. Veramente là tutto stonava. L'espressione un po' triste di Mattia, quasi avesse colto qualcosa, quella forzatamente troppo allegra che cercavo di mostrargli, l'altra distante, quasi invisibile, di Elena, che si era talmente estraniata da tutto da sembrare un mobile . E valigie, pacchi accatastati. Polvere dappertutto e il sole che sfondava i vetri, troppo accecante, troppo caldo.
Lo guardai ancora, con tenerezza. Lo presi per mano e uscimmo senza parlare, come due innamorati contenti solo di essere insieme. La luce avvolse i nostri sguardi sperduti fra le cose e le persone che incontravamo.
Decisi quel mattino di lasciarlo fare, di farmi condurre da lui. Improvvisamente io ero il bambino e lui il padre.
« Andiamo sulla spiaggia, dove c'è il nonno dopo il mare ».
« Sì, andiamo ».
E rivivemmo in tre ore anni vissuti insieme: tirare i sassi, cercare i più belli, guardare lontano, correre e riposarsi davanti alle onde, con la sua testa sulle mie ginocchia. E ancora fare chilometri che per le sue gambe sembravano mille, fermarsi a guardare ogni oggetto, salutare ogni persona.
« Qua ci sono già stato domani ».
« Vuoi dire ieri, o un altro giorno ».
« Sì, voglio dire questo ».
Quel confondere ancora ieri con domani mi fece capire che eravamo insieme nel suo spazio senza tempo, e oggi non mi sembrava neanche così grave, anzi avrei voluto essere come lui, al posto suo. E partire al posto suo.
Andammo ai giardini, e lo guardai giocare con gli altri bimbi, ogni tanto tornava e diceva :
« Va bene ? ».
« Sì, va bene. Quando ti dico che dobbiamo andare, andiamo, ok ? ».
« Sì ».
E correva a nascondere le pietre-soldi sotto la terra, e correva dietro la palla, e correva, e poi tornava.
« Ok, adesso cerco il tesoro ».
« Se hai bisogno di aiuto, chiamami ».
« No, faccio io, faccio solo ; quando mi dici di andare, andiamo, ok ?».
« Ok ».
Poi andammo al pollaio. Era un vecchio recinto con una baracca, sporco e isolato. Ma a lui doveva sembrare un castello abitato da minuscoli gnomi. L'avevamo scoperto insieme, era il nostro piccolo segreto. Le galline stavano soprattutto dentro la casetta, si vedevano poco. Ma lui mi riempiva sempre di domande su cosa facessero, sulle uova, sul padrone di quel posto.
« Una volta avevo un pollaio più grande di questo ».
« Ma dov'è ? » .
« Dov'é il nonno, oltre il mare ».
« Mi ci porti a vederlo, andiamo domani, va bene? ».
Forse mi scappò una lacrima, lui mi guardò ma non disse niente, solo :
« Andiamo! ».
E corse lontano nel campo.
« Dove vai! Non ti allontanare ».
« Vado solo lì, fino al muro ».
« Sì, ma ora torna ».
E mi portò al negozio di giocattoli, e gli comprai la macchinina che voleva, con le ultime cinquemila lire.
Dovevo fare qualcosa, dovevo prepararlo.
« Ascolta ».
« Si ».
« Babbo ti deve dire una cosa... ».
La partenza - parte 2
Sembrava non ascoltasse.
« Mi ascolti? ».
« Sì ».
« Tu parti con la mamma, e forse non ci vedremo per tanto tempo ».
« Va bene, andiamo dai nonni? ».
« Tu solo vai, con la mamma, io resto qui ».
« Ma poi vieni, domani ».
« Non so se posso, forse no ».
« Perché no? ».
« Alla mamma...non farebbe piacere, e neanche ai nonni ».
Non parlò.
« Allora, hai capito ? ».
« Si, ho capito, sono contento di vedere i nonni ».
« Adesso è ora di andare, devi partire... aspetta, sei tutto sudato... ».
« Sì » rise « allora vado, eppoi ci vediamo domani, va bene? ».
Andammo piano verso casa, e adesso ero io che dovevo tirare lui. Si fermava a guardare ogni cosa, ma più a lungo, si fermava ad ogni panchina.
« Sono stanco » diceva. Ma non era vero.
« Ma che stanco, ometto, cammina, sennò la senti la mamma ».
Arrivammo che lei era già sotto che aspettava.
« Potevate anche sbrigarvi! »
L'incantesimo era finito.
« Chissà quando lo rivedrò, non mi sembra il caso di fare storie per dieci minuti in più... ».
Non rispose, non poteva. Disse : « Bé, ciao ».
Andarono, senza voltarsi. E senza voltarsi salirono in una macchina guidata da un'ombra. E sparirono. Io rimasi lì, a guardarli mentre si allontanavano. Poi salii a casa. Entrai. Vidi che mancava di tutto, mobili, quadri, solo qualche giocattolo abbandonato e tante foto attaccate ai muri.
Guardai dalla finestra, indeciso se buttarmi o ammirare il riflesso dei colori sulle case e sull'arida collina pietrosa dietro il paese. Risi quasi al pensiero di essere solo al secondo piano. E subito il freddo mi assalì, non potevo voltare la testa e guardare l'alloggio disperato dietro le mie spalle.
Chiusi la persiana, poi un'altra, un'altra ancora, rimasi al buio più totale e mi lasciai cadere, un po' sul divano, un po' a terra, e posai la testa sperando di dormire. Poi mi rialzai, vagai al buio sbattendo di qua e di là. Trovai il letto e mi ci buttai sopra. L'odore di Elena era troppo forte, troppo. Passarono forse ore. Forse secoli. Infine mi addormentai. L'ultimo pensiero fu che al risveglio l'incubo sarebbe finito.
Strana vita, fatta di coincidenze. L'8 marzo di sette anni fa ho conosciuto Elena. Ed era veramente un giorno particolare, quell'8 marzo 1992 : il sole poteva sembrare il solito sole caldo e assonnato che illumina la maggior parte delle giornate speciali, ma pure lui aveva qualcosa di strano e pareva emanare con i suoi raggi calma e sicurezza. L'aria si era come assopita, e non si sentiva il minimo alito di vento, il che di quei tempi era veramente inusuale.
Anche la gente, e le cose intorno ad essa, si muovevano come in un cartone animato che scorreva al rallentatore. Tutto ciò che mi circondava era un insieme ovattato, come dopo un'abbondante nevicata.
Le mie stesse sensazioni erano mute trasposizioni dei sentimenti o delle vibrazioni che muovevano uomini, animali e cose...
O forse ero io che le vedevo così. Faticavo a mettere a fuoco il tutto secondo criteri più reali, o solo normali. Ma in fondo non ne avevo alcuna intenzione...
«Credevo che eravamo innamorati, avevo una fiducia cieca in te...e tu mi fai questo... tu sei pericolosa, pericolosa! ».
Basta ! zitto ! zitta !
Basta !
... Mi integravo così bene in tutto questo che sentivo il mio essere come fosse un tutt'uno con l'assenza cosmica che mi circondava. Assaporavo e godevo l'aria immobile senza più fare distinzioni, pensieri o giudizi.
Veramente ci sono momenti nella vita in cui la passività dà il massimo del godimento e sfiora i livelli più alti dell'«attività». Come se tutto ciò che si trovasse tra i due estremi improvvisamente si sbriciolasse e sparisse in una nuvola di dolce inutilità.
« Sono le ore 10 e 30 della sera e io provo a rientrare dentro me, in angoli dimenticati da tempo talmente immemorabili da sembrare fuori della mia stessa dimensione. Sicuramente è la mia dimensione a essere ormai troppo irreale per me. ».
Così chiusi gli occhi e cominciai una nuova vita.
Oggi sono nato, e mi sento proprio un gran bel bambino.
Proprio un gran bel bambino.
_________________ Cristiano Sias
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"Qu'elles étaient ainsi blanches comme leurs cheveux" prima che ci camminassero sopra. Cristiano Sias
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Sexy Aragoste - scritti spensierati del passato
(Quando si viveva di semplicità)
Qualche anno fa scrissi una poesia che si intitolava "Aragoste" e la pubblicai su un sito che oggi non esiste più . Ricordo che una autrice mi commentò simpaticamente scrivendo "Docente, le aragoste non sono poetiche, si può scherzare o (lei) è assolutamente intransigente?".
Premetto che non sono un docente, semmai dotto, cioè nel senso che qualcuno mi ha dotto qualche tempo fa, ma non ricordo più chi e quando. Non so neanche se costui si sia pentito di averlo fatto, ma non lo escluderei a priori.
L'aragosta è di fatto un animale molto curioso. Ha il corpo rivestito da una corazza che durante la crescita cambia diverse volte, ricreandone una nuova. Ha la coda ha forma di ventaglio, possiede diverse "gambe" ma solo alcune di esse vengono utilizzate per camminare e a differenza di altri crostacei non ha chele. Ha un corpo molto robusto, irto di spine e spunzoni. Anteriormente presenta lunghe antenne bicolori, gialle e rosse a tratti, che hanno la funzione di organi sensoriali. Il colore varia da un rosso più o meno acceso ad un viola intenso con piccole macchie chiare. Vive nei fondali rocciosi ad una profondità che varia dai 20 ai 200 m.
La riproduzione avviene a fine estate e in inverno nascono le larve che raggiungono fin da subito i fondali che li ospiterà per il resto della loro vita. La loro prima vita, perché ogni aragosta, come tutti sanno, ha due vite e certi studiosi ultimamente osservano attentamente i gatti per migliorarne la comprensione.
L'aragosta è conosciuta infatti anche come la regina della tavola, dopo esserlo stata del mare. Le regine, si sa sono amate, e si circondano di compiacenti servitù. Curiosi animaletti marini aumentano la concentrazione di cibo attorno a loro per garantirsi protezione e potersi riprodurre serenamente. Nella prima vita sembra però che diventino essi stessi cibo per la Signora. Recenti ricerche hanno stabilito inoltre una stretta correlazione tra la tavola dei ristoranti e i turbamenti dei fondali marini. L'aragosta insomma mangia i suoi protetti mostrando interessanti affinità con il genere umano. Pare anche che ogni volta che un'aragosta viene pescata il plancton faccia festa.
E' anche un animale molto colto e vanitoso che ama pavoneggiarsi dentro espositori acquatici di vetro ed osservare le novità della fauna multicolore che passa davanti ad orari prestabiliti in locali predisposti ad arte. E' certo che il prezzo del biglietto diventa elevato per particolari esemplari di aragoste, sia onaniste sia in coppia, per l'alto livello istruttivo dato dalla visione di due aragoste in accoppiamento, perché esse riescono incredibilmente ad amarsi senza farsi neanche un graffio malgrado la scarsa morbidezza della "pelle".
E' accertato scientificamente che le aragoste non facciano pratiche di Bdsm.
Da tempo inoltre amano il prosecco che rende la parte finale della loro esistenza molto più euforica, anche se la recente scoperta di strane pillole verdine ne ha messo in discussione la reale efficacia. Di fronte all'instabilità del mercato della carota e del prezzemolo, la risonanza data da queste voci si è oggi un po' attenuata, come ben sanno tutte le agenzie matrimoniali, che consigliano ai mariti di mantenere il riserbo assoluto sull'eventuale utilizzo di tali pillole, polverizzando semmai le suddette con lo stesso prezzemolo un attimo prima di servire a tavola. Da qui la grande fama che le aragoste hanno di piatto altamente afrodisiaco e di crostaceo poco serio, usato fin dai tempi antichi nei lupanari romani per attirare molluschi di ogni specie e razza, oltre che studiato di recente nei vari seminari di sessuologia.
Ecco perché risposi al suddetto messaggio dicendo che "Scherzare con le aragoste non solo non è vietato, ma secondo alcune teorie anche necessario." Si narra di certi cuochi che raccontano loro una barzelletta prima del fatidico momento, per rilassarle e infilargli in bocca del riso prezzemolato. Trovo il riso dopo una barzelletta molto poetico. Altri più perversi fanno loro un massaggio addominale per rilassarle, è noto che le aragoste non sopportano il solletico. Il metodo più valido però resta sempre quello di cucinarle mentre va in onda il telegiornale di Emilio Fede, sembra che le aragoste si suicidino da sole col sorriso sulle labbra (da fonte governativa)".
- Notizie Ansa - dal latino "Ansa(m), che significa "presa laterale che permette di afferrare un oggetto" senza farsi male (ndr) -
Si ricordi di separare la ragazza dalle aragoste prima di bollirle
_________________ Cristiano Sias
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"Qu'elles étaient ainsi blanches comme leurs cheveux" prima che ci camminassero sopra. Cristiano Sias
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Parole per te
Era la pelle una corazza di carta e lo sguardo un battito d'ali che l'attraversava come se fosse cielo.
Il viaggio al centro della terra l'abbiamo fatto per diventare fiamma dentro al fuoco e non pensare che il tempo sia misurabile come una distanza, perché se spegnere la luce è un'illusione, riaccenderla guardando il sole fisso, fino a diventare cieco, è essere felici di esserlo, perché così non si può più guardare la notte che non consola e non ci si accorge se si è morti o rinati e se camminiamo storti o se sia passato un secondo oppure secoli, per poi ritrovarsi a capire che quelle colline ventose davanti a me, in realtà sono dentro me e io non sono che un filo d'erba che attraverso la roccia è spuntato più forte che mai per ritrovarmi qui di nuovo, solo.
Forse come te, ora.
Così è il tempo senza tempo, così sono le parole che ritornano e urlano che quei secoli al buio sono stati più brevi di un bacio e la tua mano è sempre qui, nella mia, per ridarti la forza che dai e riprenderla e ridartela e ritrovare quel pensiero ondeggiante di malinconia in un piccolo tremore da qualche parte dentro me, o dentro te.
Parole scritte senza pensare.
Parole per te, per pensarti ancora.
_________________ Cristiano Sias
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"Qu'elles étaient ainsi blanches comme leurs cheveux" prima che ci camminassero sopra. Cristiano Sias
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Serata con l'architetto
Era davvero un amore speciale. Lei era bella, ma anche la femmina più testarda che avessi mai conosciuto. I suoi lineamenti decisi esprimevano una forte personalità. Sotto un manto turchino la pelle chiara vibrava di emozioni nascoste, strani riverberi accompagnavano le sue curve moderate, appena interrotte dai tratti spigolosi del carattere che ne risaltavano il fascino e la sensualità. Tutto intorno a lei luccicava di riflessi cromati e perlacei e pochi erano gli uomini che resistevano al tentativo di voltarsi per ammirarla. Per lei avevo rinunziato alla mia fiammante Morini 3e1/2, così inadatta, nel gelo di Torino, a reggere il confronto con una vera Signora.
Tutti la chiamavano "Fulvietta blackout".
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Era davvero un amore speciale. La bionda al mio fianco si chiamava Tiziana. Aveva 25 anni come me ed era architetto. Di lei mi colpì subito la carrozzeria elegante e i fantastici fendinebbia verdi. Il rivestimento era di gran classe: tessuti Armani abbinati a pellame coccodrillo e accessori delle sorelle Fontana. I respingenti di modello esclusivo e i pneumatici Timberland non la facevano passare inosservata. Non so quanti carburatori avesse ma credetemi, in quel momento non era così importante. Quando la vidi arrivare nell'appartamento accanto al mio, scesi subito al bar a comprare due gelati e dopo averli messi nel mio frigo privo di congelatore bussai alla sua porta dicendo: - ho un gelato che mi avanza e mi dispiacerebbe buttarlo, che ne dici di evitare questo terribile spreco?
- Sei più testarda di un mulo!
Quel giorno le provai davvero tutte, mai lei nulla, era irremovibile. Ormai m'ero abituato, ultimamente si era messa anche ad andare a tre cilindri. Forse non dovevo aspettare sempre che rimanesse senza benzina per mettere le mie solite cinquemila lire, lo sporco del fondo del serbatoio non faceva bene a quel carburatore doppio corpo. Così restò insensibile alle lusinghe, agli ordini, alle carezze e Tiziana cominciava a spazientirsi. Quando la mia Fulvietta decideva di spegnersi non c'era proprio niente da fare. Se però questo succedeva di venerdì sera, con una bellissima bionda al fianco con cui avevi appena diviso un buonissimo gelato e nel mezzo dell'incrocio più pericoloso e malfamato di Porta Palazzo, era quantomeno imbarazzante.
- Basta, ho capito che con te mi rovino la serata.
E prima che potessi formulare un qualsiasi ragionamento credibile la mia fantastica conquista era già sparita dentro un taxi. Sì, proprio uno di quei taxi che non trovi mai quando lo cerchi tu, ma che è sempre lì pronto per la ragazza che ti pianta.
Non fu facile spingere quella tonnellata di macchina fino al bordo della piazza sopra lo spazio piastrellato e forse non ce l'avrei mai fatta se non mi avesse aiutato il marocchino delle sigarette, impietosito dalla mia disavventura. "Verrò a prenderla domani mattina. Ormai è tardi e domani troverò una soluzione con qualche meccanico del quartiere".
Tornai a casa a piedi, con il sudore che si gelava per il freddo.
Il giorno dopo, senza fretta a metà mattinata, arrivai in autobus pensando al modo migliore di portarla via da lì. "Speriamo che non mi abbiano fatto la multa", pensavo. Quando arrivai nel punto in cui sarebbe dovuta essere la mia auto restai letteralmente a bocca aperta: camion, furgoni e furgoncini, banchi di mercato tutt'intorno e una folla incredibile. Non so se avete una vaga idea di cosa sia il mercato di Pòrta Pila a Torino il sabato mattina. La intravidi attraverso qualche pertugio e mi resi subito conto che era praticamente inavvicinabile: le avevano costruito intorno due tettoie di tela, avevano usato i retrovisori cromati modello-esclusivo per fissare i tiranti e bloccato con le ruote i paletti dei sostegni portanti. Il tetto era diventato un espositore di biancheria e sul muso c'era un seggiolino per auto posato rispettosamente sopra un cuscino consumato con un bimbo che dormiva tranquillo, indifferente alla confusione e al frastuono.
- Siamo stati attenti a non farle neanche un graffio, mi disse un tizio grosso con la testa rasata e una cicatrice gialla sopra l'orecchio serie "meglio che non ti arrabbi con questo qui".
Ricordo che tra il piangere e il ridere optai per la seconda soluzione. Me ne andai a casa lasciandola lì, come si lascia una persona cara che però sai protetta e in buone mani. In fondo chi mai avrebbe potuto rubarmela in quelle condizioni?
La domenica mattina ritornai, stavolta di buon'ora, con un pizzico di preoccupazione: la piazza era deserta, solo un papà mattiniero con un bimbo da una parte e la mia Fulvietta brillante come mai al centro, solitaria e nobile. Sembrava un monumento. Pareva persino che me l'avessero ripulita.
Mi sedetti assonnato e senza fiducia al volante, inserii la chiave e la girai: incredibilmente partì al primo colpo!
- Non ci posso credere... ti rendi conto di cosa mi hai combinato?
Lei si svegliò dal torpore e disse sottovoce:
- Non era adatta a te, troppo altezzosa, troppo "raffinata".
- Ah sì? Non sono per le cose raffinate io? Allora che ci faccio con te?
- Dai non ti arrabbiare, sapessi piuttosto che giornata incredibile ho vissuto! Non avevo mai visto un mercato dall'inizio alla fine: i commercianti che urlavano e scherzavano, montavano e smontavano, freddo vino fumo caldarroste, i pensionati che cercavano la verdura a minor costo, le signore impellicciate che discutevano sul prezzo delle arance e i bambini che giocavano e quanto rumore, quanta confusione e colori e simpatia, ho persino tentato di sventare uno scippo ma, davvero, non potevo muovermi...
Ricordo raramente una risata come quella, un sole e una gioia di vivere come quel giorno, dopo averla finalmente ritrovata. Improvvisamente mi sentii felice e passai una splendida e indimenticabile domenica insieme a lei.
Sì, era davvero un amore speciale.
Quando morì, non uscii di casa per una settimana.
_________________ Cristiano Sias
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Non ti amo più
Non capisco, ho passato giorni e notti a sistemare il mio pc francese che non funzionava perché l'incompatibilità del norton italiano aveva distrutto tutto. Non è certo colpa tua se java è una puttana così piena di buchi che ci potrei scolare la pasta. E' colpa mia che non ho fatto attenzione. Te ne ho parlato tanto, ti ho descritto le mie notti insonni, o forse me lo sono sognato, forse non eri tu. Prima ti ho cercata con l'unico scopo di farmi aiutare nell'installazione del programma, mi sono innervosito perché come al solito mi facevi perdere tempo e mi facevi pensare a domande che non avevano nulla a che fare e che avevano già avuto le risposte.
Non capisco, non ti ho aggredita. No. Sono solo stanco, stufo, nervoso perché la cattiveria della gente mi ha fatto ancora male, perché è stata una brutta giornata, perché sono stufo dello squallore intorno a me, perché cercavo di non fumare e perché non capivo e ogni volta che non capisco mi sento inadeguato, inutile, stupido e non ho più voglia di parlare o vedere nessuno.
Invece tu stai sempre lì, a bruciarmi le parole in gola e arrotolarmi i pensieri. Sai essere convincente, fai in modo che mi rifletta in te ma l'immagine che mi restituisci è opaca, deformata, come quando da bambino mi dicevano che ero l'ultimo, il piccolo, il cocco di mamma e dovevo fare tutto meglio di tutti per poter avere un po' di considerazione e rispetto. Tutta una vita a cercare di dimostrare qualcosa di indimostrabile, a chiedere aiuto per uscire dal tunnel che mi creavo per difendermi dall'egoismo, o a lottare contro mulini a vento e mandare tutti a quel paese perché io non dovevo dimostrare niente a nessuno.
Anche tu, proprio tu, mi dicevi di fare i primi passi perché qualcuno li doveva pur fare, o di non fare nulla perché non era giusto che li facessi sempre io, di seguire consigli che facevano soltanto l'interesse di chi me li dava e quando ti dicevo - vedi? Vinco solo quando faccio di testa mia - mi rispondevi che mi fidavo troppo del prossimo per riuscire a fare di testa mia, che amavo più di quanto ero amato e finivo per accorgermi che nessuno mi amava davvero.
Che nessuno aveva veramente bisogno di me.
Io l'idealista il sognatore l'avvocato del diavolo il solito attaccabrighe la pecora nera... il fallito, il... mostro. In quel tunnel in cui non facevo entrare nessuno, che era la mia unica sola salvezza.
Mi dispiace ora che tu ti senta in colpa, non capisco, mi sembra così assurdo che qualcuno si senta in colpa per colpe mie. Non è mai successo. E' sempre stato il contrario, ogni volta ero io il colpevole di tutto. Mi sono assunto responsabilità mie e di altri. Perché nessuno mi ha mai detto grazie? Perché è così che succede.
Ancora non lo hai imparato Cristiano?
E quel tunnel... quel rifugio che anche tu hai cercato da me, per difenderti da me, per non essere "coinvolta", hai separato i tuoi dubbi dai miei per paura che ti accusassi.
Non capisco, come può qualcuno sentirsi responsabile del mio malessere? Stai zitta, immobile, sei un pezzo di vetro che si lascia fare tutto, sei fragile anima liquida che brucia nel suo guscio ghiacciato, che responsabilità vuoi avere tu. Io mi sono sentito responsabile del malessere di chi voleva impormi il suo pensiero e non ci riusciva, ho sempre pensato che se uno stava male forse potevo aiutarlo e tu pensi invece che se uno sta male sia colpa tua.
Come siamo diversi. E come è vero che ogni volta che cerco di aiutare qualcuno finisce in un casino. Ma perché poi devo farlo? Per un grazie che non arriva? Che cosa hanno fatto gli altri per me? E perché quando qualcuno cerca il dialogo penso che vuole convincermi di avere ragione? Perché ci deve essere bisogno di dialogare per capire che uno schiaffo fa meno male dell'indifferenza? Perché le cose ovvie devono essere messe in discussione affinché tutti siano felici, tranquilli e sereni?
Perché, perché, PALLE, non ne posso più, non ho mai accettato questo modo di pensare, di vivere e così alla fine mi sono isolato, perché è questo mondo ad essere così, anche tu sei così e non ne hai colpa, la colpa è mia che sono diverso, incomprensibile. Che ci faccio io qui? Questo non è il mio mondo, non è la mia vita, voglio uscirne, voglio che scompaia, voglio morire, voglio...e così anche tu ti svuoti, ti allontani. Mi lasci solo.
Non capisco, o forse sì... forse capisco che non mi ami, non mi hai mai amato, non vedo altra risposta, non si può amare un pazzo, uno pieno di guai, che diritto ho io di farti vivere nei miei guai, che diritto ho di chiedere comprensione, perché devo elemosinare? No, non devo più dividere con nessuno tutto questo. Nessuno dovrà sentirsi in colpa o a disagio per me. Non posso imporre il mio caos a qualcuno, non posso pensare che qualcuno possa capire o aiutarmi se io stesso non ne sono capace, eppure anche così non capisco perché tutto sia così difficile, perché nessuno sa che esisto e se non capisco è il buio, è freddo... e ancora mi sento inadeguato, stupido, inutile e la vita è un inferno e spero che finisca perché non ho il coraggio di finirla io. Che cosa vuoi dire, non c'è più nulla da dire, ti potrei parlare per ore, giorni, a che serve. Alla fine, dopo l'ultimo sorso, rimane solo un po' di gelo dentro. Sempre, meglio molto meglio non parlare non pensare non vivere.
Non soffrire più per te.
In fondo sei solo una bottiglia e ora che sei vuota, non ti amo più.
_________________ Cristiano Sias
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Noi eravamo Astarotte, poi siamo diventati Serafini
Che bei tempi, ancora mi ricordo quando tiravo le trecce di mia sorella e il pallone contro i lampioni. Quello sì, era divertimento.
In principio (infatti) era il Verbo appresso a Dio, ed era Iddio il Verbo e 'l Verbo Lui: - queste parole aprono un glorioso poema che sapientemente continua - questo era nel principio, al parer mio,e nulla si può far sanza Costui. Però, giusto Signor benigno e pio, mandami solo un degli angel tui, che m'accompagni e rechimi a memoria una famosa, antica e degna storia.
Le parole del Morgante del Luigi dei Giganti e Semigiganti trovano un vasto seguito su Internet, dove ormai si sprecano le imitazioni, a dimostrazione che anche i cloni sono diventati colti e che noi tutti possiamo oggi aver la certezza dei dubbi anche sull'immagine riflessa nel nostro stesso specchio. Perché
Di sopra alla badia v'era un gran monte
dove abitava alcun fero gigante,
de' quali uno avea nome Passamonte,
l'altro Alabastro, e 'l terzo era Morgante:
con certe frombe gittavan da alto,
ed ogni dì facevan qualche assalto.
Ed imparammo a esser fieri e savi, a testa alta, in un mondo d'ignavi. Non a caso fummo anche noi accusati d'eresia. Questo potrebbe dimostrare che i cloni non siano forse una scoperta dell'era moderna e che già nel 400 si divertissero a saltellare da un monte all'altro? Era troppo bello allora fare assalti solitari e in comitiva, giocosi come spiritelli birbaccioni dicendo a tutti che "Uno spirto chiamato è Astarotte, molto savio, terribil, molto fero; questo si sta giù nelle infernal grotte: non è spirto folletto, egli è più nero".
S'e' non vien costretto,
potrebbe questo spirito ingannarmi
e gittare in un fiume Ricciardetto:
dimmi, Astarotte, s'io posso fidarmi. -
Disse Astarotte: - Non aver sospetto:
non ti bisogna adoperare altre armi;
e nota una parola: che ignun saggio
non fa mai cosa a suo disavvantaggio:
Così eravamo e "Pertanto, io non aspetto il baldacchino, non aspetto co' pifferi l'ombrello, non traggo fuori i nomi col verzino com'io veggo talvolta ogni libello: quand'io sarò con quel mio serafino, io gli trarrò fuor forse col cervello, perché questo Agnol vi porrà la mano, nato per gloria di Montepulciano".
Oggi sembrano rovesciarsi le posizioni: Astarotte, che era stato un Serafino, e "sapeva molte cose che non sanno i poeti, i filosofi e i morali" non fa come gli spiriti folletti contemporanei che s'aggirano nell'aria e ingannano gli uomini facendo parere quello che non è. Aggiungiamo l'ironia, quel prendere le cose così alla leggera e sdrucciolandovi appena, quell'aria già scettica e miscredente, ancorché non ci sia negazione e scetticismo e avrete il ritratto di quello che eravamo, quello di Astarotte. L'eco volgare e confusa di un secolo ancora inconsapevole di sé. Non preoccupatevi, era solo il '400. Oggi siamo bravissimi a trasformare quelle qualità in alucce candide e innocenti e svolazzare di poesia in poesia senza più cattive intenzioni e sarcasmi maligni, ma con un solo fine e una inequivocabile meta: tanto-ti-batto! In fondo basta un provider e viver un po' "fuor forse col cervello " per essere dei veri Serafini. E il resto... pace e amore. Pace e bene.
Pace e bene?
Ma...chi la scrisse questa assurda poesia...uno "pericoloso"... di certo:
Battaglia finale
(d'ogni amore resterà uno solo)
Finirà questa guerra sottile
come ogni ricordo d'amore.
Combatterò con voi
contro i caduti sulla terra,
il pallore dei serpenti
risvegliati dal frastuono
rischiarerà la notte,
i credenti nella verità
saliranno sulla falce di luna.
Finirà questa guerra senza fine,
piallerà il tempo tagliente
scaglie d'ansia e schegge di nausea
fra le unghie insanguinate.
Arrotola i cieli con cura
per gli uomini dei sentimenti
sgozzati come vitelli,
resuscita con furia i leoni
che come aquile voleranno.
Finirà questa guerra sleale
con le gocce di ingiuria
evaporate sul fuoco della fede,
mentre noi, veri angeli ribelli,
come Tuo Figlio, rovesciamo tavoli.
Maria Lactans non voltare lo sguardo
verso i caduti sulla terra,
fermati ora e riposa sicura
che l'ultimo quarto ci basterà,
perché un angelo incazzato
fa più paura di mille diavoli.
A scrivere "Battaglia finale" fu Carlo Magno.
No, pardon, scusate, "Battaglia finale" l'ho scritta io.
La colpa della confusione non è mia, è di quel tal Astarotte clone che mi ha chiamato Carlo, come un altro personaggio del "Morgante". Il quale, sia detto per fornire anche una diversa opinione, è un poemetto basso comico, di un comico - secondo il giudizio di De Sanctis - "vuoto e spensierato, che imputridisce nelle acque morte di un'immaginazione volgare e non si alza a fantasia."
_________________ Cristiano Sias
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Sogni reali
C'era un tempo in cui "esistevano" i sogni. Con questo non intendo dire che oggi non esistono più. Ma nel XX° secolo, che ha visto in pochi decenni evoluzioni superiori ai duemila anni che li hanno preceduti, anche i sogni hanno avuto una loro "trasformazione". Si presentano sempre a noi in modo indefinito o quasi tangibile, a tratti pero' distaccandosi dalla loro stessa dimensione. Questa frattura è talvolta così netta che le immagini dimenticate delle nostre radici e la ricerca inconsapevole di un'antica armonia, ritenuta spesso a torto perduta per sempre, si accumulano e si confondono nei ritmi della quotidiana corsa verso il futuro.
Parrebbe persino che la stessa dimensione onirica abbia aperto le sue nuove porte a rivoli intercomunicanti di mondi un tempo neanche lontanamente immaginabili..
Non è sbagliato oggi parlare di sogni virtuali e sogni reali.
Sono due tipi di sogni strettamente correlati, ma tra essi vi è la stessa differenza che esiste fra "l'essere amati dalla vita" e l'amarla.
Non so se vi è mai capitato di passare una ricorrenza importante, per esempio il vostro compleanno, senza parlare con nessuno nè ricevere una sola telefonata. E' un'esperienza che non auguro a nessuno. Eppure pochi momenti nella vita di un uomo danno un simile senso dell'oblio, del tempo, dell'immensità e della insignificanza della nostra realtà, come quelle giornate passate in compagnia della televisione o di una bottiglia. Niente ci riconcilia di più con il nostro equilibrio e il nostro ambiente vitale.
Naturalmente mi riferisco a situazioni "normali", senza influenze esterne, come conflitti familiari o nervosismi di lavoro, o interne, come depressioni o gravi psicopatie.
A me è capitato proprio in uno di quei giorni di sentirmi così integrato e in perfetta simbiosi con l'universo intero da ritrovare una sensazione di pace, di serena voglia di vivere e godere ancora delle vecchie e nuove scoperte della vita.
Ma non è necessaria una giornata così per ritrovare queste sensazioni.
Nell'esistenza di ognuno di noi c'è una soffitta. In quell'angolo dove abbiamo relegato la nostra infanzia, i nostri ricordi, c'è un sottotetto di ragnatele dove pian piano finiscono giocattoli smessi, grammofoni vecchi o rotti, fra lettere d'amore, piccoli chimici e album di figurine.
Anche chi non ha mai avuto la "sua" soffitta, se la cerca bene finisce per trovarla. Magari in qualche "addormentato" rispostiglio dentro di se. Un sottotetto o un sottoscala di una casa o dell'anima, che improvisamente spunta fuori in una chiacchierata con il "vecchio" padre o la mamma o un nonno. O nei ricordi di un parente, incontrato dopo chissà quanto tempo.
In quel "ripostiglio" c'è sempre un vecchio baule con le cinghie corrose e i manici ossidati, pieno di cianfrusaglie e foto ordinate o sgualcite, come radici dimenticate di un albero che pure guardiamo distrattamente tutti i giorni, senza vederlo ormai neanche più. Perchè è lì, fa parte dell'ambiente che ci circonda. Non ci appassiona nè ci attrae finchè qualcuno di passaggio non ci dice: come è bello quell'albero. Allora ci scuotiamo, gli diamo un'occhiata superficiale e diciamo: si, è vero, è bello. Non pensiamo a quanta vita respira sotto di lui, nel suo mondo sotterraneo grazie al quale ogni primavera il nostro sogno-desiderio di vederlo rinverdire diventa reale consapevolezza della nostra stessa realtà e di quell' "armonica integrazione" con il mondo che ci circonda.
Eppure questo sogno reale potrebbe essere la nostra salvezza.
_________________ Cristiano Sias
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L'aquilone più bello
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L' aquilone piu' bello
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Ciao, mi chiamo Max, ho 8 anni e un aquilone rosso.
Lo vorrei vedere sempre lassu', insieme a tanti altri gialli, rossi, neri e anche bianchi.
Perche' gli aquiloni non sono sempre blu.
Sono come i giochi di noi bambini, hanno tutti i colori dell'arcobaleno.
A me piace correre sulla spiaggia e guardarlo volare.
Una mattina un signore grande mi ha detto:
- che bell'aquilone che hai, ma io ne ho uno molto piu' bello!
- fammelo vedere!
- vieni con me e te lo faccio vedere.
- portalo qui - gli ho detto - perche' devo venire con te?-
Pero' avevo voglia di vederlo quell'aquilone.
Mentre non sapevo che cosa fare ho visto un grandissimo uccello di carta.
Si', era proprio un uccello, volava come se avesse le ali.
Era blu, in mezzo agli altri aquiloni dei bambini e lo teneva un signore con i capelli tutti bianchi che rideva e gridava:
- il mio e' il piu' alto di tutti ! Provateci voi se ci riuscite !
Sono corso da lui e gli ho chiesto come faceva a farlo volare cosi' alto.
- Io li costruisco - ha risposto - e ci metto amore e fantasia perche' ho tanti bambini che mi dicono come devo fare.
Gli ho detto di quell'altro signore che voleva farmi vedere il suo ancora piu' bello e lui ha risposto: - hai fatto bene a non andare, quell'aquilone e' un imbroglio.
Poi... ti chiedono sempre qualche cosa in cambio.
Ci siamo girati tutti e due a guardare il posto dove quel signore era seduto, ma non c'era piu' nessuno.
- Me lo regali? - gli ho chiesto.
- Si, tienilo e' tuo, io ne faro' uno ancora piu' bello.
- Piu' bello di questo ? Ma e' impossibile !
- Vieni, andiamo dalla mamma - e ha chiesto alla mamma se poteva regalarmi l'aquilone.
La mamma ha detto sì e io ero molto felice.
Avevo l'aquilone piu' bello piu' grande del mondo !
- E tu, non vuoi niente in cambio ? gli ho chiesto.
- Io l'ho gia' avuto - ha risposto - perche' il sorriso di un bambino vale piu' di tutti gli aquiloni che io possa inventare.
Massimiliano S.
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_________________ Cristiano Sias
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Il Guardiano delle Parole
Il Guardiano delle Parole cammina in una strada bianca e silenziosa. Così angusta e distesa sui colli, si offre serena al sole del mattino. La discesa è ruvida e discreta, impennandosi un poco e scomparendo più avanti in un bosco scuro, turbata appena da pani di pietra gialla e ciuffi d'erba talmente verdi da sembrare finti. I suoi passi non fanno rumore. Visto da vicino il bosco è ancora più grande e cupo. A valle si intravede la pianura separata da file di cespugli e dai sassi dei muretti. Né una casa, né un traliccio a ricordare la presenza dell'uomo. Anche i muretti sembrano il disegno di un poeta-pittore e neanche sforzandosi si riesce a immaginare altro che quella strada tortuosa in questo luogo senza tempo.
Forse è sempre esistita così, come un respiro fra salici e rododendri, un pigro sorriso che invita il viandante ad andare fino alla prima curva, poi ancora fino alla successiva. Ogni curva è un allegro attimo di vento che sospinge e va via, invitandoti a seguirlo. Se non si scorgesse il mare lontano si potrebbe pensare che la strada non finisca mai. Al di là del bosco, lo sguardo si allarga su una distesa verde macchiata di parole nuove come fiori cangianti e parole vecchie dall'alto e rugoso fusto. Lui ama camminare in questo tiepido miscuglio di colori e sensazioni. Anche i pensieri gli vengono alla mente come quelle figure dei libri di scuola con i contorni marcati e pronte per essere colorate. Procede senza fermarsi, senza mai distogliere lo sguardo da quelle tinte magiche. La campagna gli restituisce grata immagini di una bellezza lieve contornata da un cielo azzurro e violento. Le nuvole scaturiscono dalla polvere bianca, fra i papaveri accesi dal sole come esseri mutanti fra sangue e amore. E' ora di rientrare. Al ritorno i prati sembrano altri prati e la luce del sole è più sapiente. I suoi passi sono più lenti, quasi a prolungare al massimo il piacere come un amante raffinato. Ama questi luoghi, un giorno anche lui andrà fino a quell'ultima curva e si siederà sulla spiaggia. Ma il mare è ancora troppo lontano, il ladro potrebbe essere nascosto dietro ogni pietra, ogni cespuglio. Il Guardiano si scuote, apre la sua sacca consumata e comincia a seminare come ogni giorno un centinaio di parole: sa bene che il ladro è sempre in agguato e lui deve sorvegliare attentamente. Egli agirà rapido e silenzioso, non potrà portarne via più di qualcuna, forse una decina, nel suo piccolo cestino. Il peso ne potrebbe rallentare la fuga.
Il ladro di parole è un grande stratega, un vero comunicativo. Le porterà nel suo appartamento inaccessibile, esponendone solo alcune dal suo balconcino affinché tutti possano ammirarle, invidiarle, imitarle. Quelle due o tre basteranno per i suoi contatti col mondo, per la conoscenza e il controllo delle sensazioni degli altri. Come ogni giorno, il tempo sembra fermarsi, gli uccelli si posano e un fremito leggero percorre il prato. In quell'incanto l'attesa viene premiata e la voce del Guardiano risuona nella valle, la sola eco a farle compagnia. La solita canzone, ogni giorno...sempre la stessa:
Parole
figlie di fantasia
acerbe sempre in piedi
amiche ignote che sfuggite di mano
profane che partorisco in fretta
all'alba rossa sempre mi deludete
oscure di pace e cultura
parole di troppo senza sesso
meditate e feconde
colte in un vicolo
disperse nell'aria
per un sorriso o un respiro
un'idea o un amore.
Parole amate ditemi: qual'è il paradosso del nostro tempo?
In coro si leva la risposta: nel silenzio...ci salveremo.
_________________ Cristiano Sias
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